L’importanza di una corretta diagnosi è certamente riconosciuta ed in questa direzione vanno, ad esempio, i periodici aggiornamenti dei criteri diagnostici del DSM alla luce delle nuove evidenze scientifiche. Tuttavia, il rilievo dato alla corretta diagnosi di un episodio di malattia non deve far trascurare la significatività di una valutazione clinica più ampia ai fini di un trattamento efficace. Due persone che ad esempio condividono la stessa diagnosi possono differire profondamente per quanto riguarda sintomi presenti, loro ricorrenza e gravità. E’ quindi fondamentale non soltanto identificare e diagnosticare un determinato disturbo ma anche valutarne gravità, durata e caratteristiche. Con questa finalità, Fava e Kellner nel 1993 hanno introdotto nella valutazione psicopatologica il concetto di modello stadiale. Tale concetto è stato nel tempo revisionato da Cosci e Fava in una revisione della letteratura del 2013 ed in una del 2022 che hanno evidenziato che numerosi disturbi mentali come ad esempio depressione, disturbo bipolare, disturbo di panico e dipendenza da alcol seguono il modello a stadi di malattia. Secondo questo modello, è possibile identificare cinque stadi di malattia in ambito psichiatrico. Il primo stadio riguarda la fase prodromica, ossia la presenza di segni e sintomi che precedono l’insorgenza della fase acuta di un certo disturbo. Si tratta di sintomi leggeri rispetto a quelli caratterizzanti l’esordio della malattia che si discostano appena dal consueto funzionamento della persona e che risultano di più difficile identificazione attraverso gli strumenti abitualmente impiegati nella valutazione psicopatologica. Il secondo stadio indica la presenza di un disturbo clinicamente diagnosticabile, così come avviene attraverso i criteri del DSM o dell’ICD. Dato spesso la comorbidità tra disturbi diversi e la presenza quindi di diagnosi multiple, in questa fase di malattia risulta importante distinguere tra quadro sintomatico primario e secondario. In ciò viene appunto in aiuto il metodo stadiale, consentendo di verificare da un punto di vista cronologico l’evoluzione dei sintomi e permettendo di stabilire se, ad esempio, il quadro primario sia un disturbo d’ansia con la successiva comparsa di sintomi depressivi oppure il contrario. Nel terzo stadio si ha la presenza di sintomatologia residua. Nonostante la psicopatologia sia in questa fase senza dubbio più lieve, tanto che la diagnosi precedentemente formulata non è più soddisfatta, nondimeno sono presenti ancora alcuni sintomi. I sintomi di questa fase sono abitualmente sovrapponibili con i sintomi prodromici caratterizzanti il primo stadio. Il quarto stadio identifica una psicopatologia diventata ricorrente, cioè la ricomparsa di un nuovo episodio di malattia dopo almeno sei mesi dalla remissione. Un’occorrenza tutt’altro che infrequente, come può avvenire ad esempio per gli episodi depressivi. Il quinto stadio identifica invece una condizione psicopatologica divenuta cronica.
La possibilità di inquadrare un episodio di malattia alla luce del modello stadiale è particolarmente rilevante ai fini terapeutici, perché consente di delineare il metodo più efficace per quella particolare fase della malattia, giungendo così ad un trattamento individualizzato.
BIBLIOGRAFIA
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