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Il comportamento di malattia: fattore prognostico e trans-diagnostico

Persone che condividono una stessa diagnosi possono naturalmente differire per molteplici aspetti e situazioni. Gli scienziati hanno cercato di individuare e studiare le variabili più rilevanti in tal senso. Tra queste, un posto di assoluto rilievo è occupato da ciò che viene definito “illness-behavior” o comportamento di malattia.

Con comportamento di malattia si fa riferimento alle modalità con cui una singola persona esperisce, dà significato e vive determinati sintomi, comportandosi di conseguenza. Può comprendere in senso più ampio il modo in cui una persona si relaziona alle proprie sensazioni fisiche, sia a livello di attenzione selettiva che viene loro dedicata sia a livello di interpretazioni e significati che ne sono forniti. Include perciò anche le spiegazioni che una persona può elaborare relativamente a sintomi o processi fisiologici (cioè normali). Questo influenza naturalmente la modalità con cui la persona affronterà i sintomi e le informazioni che provengono dal proprio corpo  ed anche come si rapporta con i curanti cercando tempestivamente aiuto o aspettando un certo lasso di tempo prima di consultare un clinico.

Il comportamento di malattia non è spiegato soltanto da caratteristiche personali ma anche dalle caratteristiche dei sintomi sperimentati e da variabili relative al contesto di cura e al rapporto con i curanti stessi.

In accordo con la recente ricerca psicosomatica e i relativi criteri diagnostici (DCPR- Diagnostic Criteria for Psychosomatic Research), un prerequisito fondamentale per identificare il comportamento di malattia è che il paziente sia stato adeguatamente informato sulle sue condizioni mediche, avendo inoltre ricevuto l’opportunità per discutere, chiarire o negoziare rispetto a dubbi o necessità presentate. Infatti, in assenza di un’adeguata informazione e confronto medico-paziente, risulta difficile poter determinare se la reazione del paziente (che può spaziare   dalla flessione dell’umore all’ansia passando per la ricerca o in alcuni casi l’evitamento di figure mediche), sia da attribuire ad una inadeguata interazione clinico-paziente o ad aspetti propri del paziente stesso. Accertato ed ottemperato a questo aspetto, gli eventuali e persistenti aspetti disfunzionali riguardanti il comportamento di malattia del paziente possono essere affrontati con interventi più strutturati come la psicoterapia.


Cosci F, Fava GA. The clinical inadequacy of the DSM-5 classification of somatic symptom and related disorders: an alternative trans-diagnostic model. CNS Spectr. 2016 Aug;21(4):310-7. doi: 10.1017/S1092852915000760. Epub 2015 Dec 28. PMID: 26707822.

Fava GA, Cosci F, Sonino N. Current Psychosomatic Practice. Psychother Psychosom. 2017;86(1):13-30. doi: 10.1159/000448856. Epub 2016 Nov 25. PMID: 27884006.

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Il ruolo del modello stadiale nella valutazione psicopatologica

L’importanza di una corretta diagnosi è certamente riconosciuta ed in questa direzione vanno, ad esempio, i periodici aggiornamenti dei criteri diagnostici del DSM alla luce delle nuove evidenze scientifiche. Tuttavia, il rilievo dato alla corretta diagnosi di un episodio di malattia non deve far trascurare la significatività di una valutazione clinica più ampia ai fini di un trattamento efficace. Due persone che ad esempio condividono la stessa diagnosi possono differire profondamente per quanto riguarda sintomi presenti, loro ricorrenza e gravità. E’ quindi fondamentale non soltanto identificare e diagnosticare un determinato disturbo ma anche valutarne gravità, durata e caratteristiche. Con questa finalità, Fava e Kellner nel 1993 hanno introdotto nella valutazione psicopatologica il concetto di modello stadiale. Tale concetto è stato nel tempo revisionato da Cosci e Fava in una revisione della letteratura del 2013 ed in una del 2022 che hanno evidenziato che numerosi disturbi mentali come ad esempio depressione, disturbo bipolare, disturbo di panico e dipendenza da alcol seguono il modello a stadi di malattia. Secondo questo modello, è possibile identificare cinque stadi di malattia in ambito psichiatrico. Il primo stadio riguarda la fase prodromica, ossia la presenza di segni e sintomi che precedono l’insorgenza della fase acuta di un certo disturbo. Si tratta di sintomi leggeri rispetto a quelli caratterizzanti l’esordio della malattia che si discostano appena dal consueto funzionamento della persona e che risultano di più difficile identificazione attraverso gli strumenti abitualmente impiegati nella valutazione psicopatologica. Il secondo stadio indica la presenza di un disturbo clinicamente diagnosticabile, così come avviene attraverso i criteri del DSM o dell’ICD. Dato spesso la comorbidità tra disturbi diversi e la presenza quindi di diagnosi multiple, in questa fase di malattia risulta importante distinguere tra quadro sintomatico primario e secondario. In ciò viene appunto in aiuto il metodo stadiale, consentendo di verificare da un punto di vista cronologico l’evoluzione dei sintomi e permettendo di stabilire se, ad esempio, il quadro primario sia un disturbo d’ansia con la successiva comparsa di sintomi depressivi oppure il contrario. Nel terzo stadio si ha la presenza di sintomatologia residua. Nonostante la psicopatologia sia in questa fase senza dubbio più lieve, tanto che la diagnosi precedentemente formulata non è più soddisfatta, nondimeno sono presenti ancora alcuni sintomi. I sintomi di questa fase sono abitualmente sovrapponibili con i sintomi prodromici caratterizzanti il primo stadio.  Il quarto stadio identifica una psicopatologia diventata ricorrente, cioè la ricomparsa di un nuovo episodio di malattia dopo almeno sei mesi dalla remissione. Un’occorrenza tutt’altro che infrequente, come può avvenire ad esempio per gli episodi depressivi. Il quinto stadio identifica invece una condizione psicopatologica divenuta cronica.

La possibilità di inquadrare un episodio di malattia alla luce del modello stadiale è particolarmente rilevante ai fini terapeutici, perché consente di delineare il metodo più efficace per quella particolare fase della malattia, giungendo così ad un trattamento individualizzato.

BIBLIOGRAFIA

Cosci F, Fava GA. Staging of mental disorders: systematic review. Psychother Psychosom. 2013;82(1):20-34. doi: 10.1159/000342243. Epub 2012 Nov 6. PMID: 23147126.

Cosci F, Fava GA. Staging of unipolar depression: systematic review and discussion of clinical implications. Psychol Med. 2022 Jul;52(9):1621-1628. doi: 10.1017/S0033291722001507. Epub 2022 Jun 3. PMID: 35655409.

Fava GA, Kellner R. Staging: a neglected dimension in psychiatric classification. Acta Psychiatr Scand. 1993 Apr;87(4):225-30. doi: 10.1111/j.1600-0447.1993.tb03362.x. PMID: 8488741.

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Farmacopsicologia clinica

La farmacopsicologia clinica valuta gli effetti dei trattamenti farmacologici sul funzionamento psicologico. L’importanza che riveste tale tipologia di indagine è dovuta al fatto che la maggior parte dei pazienti con un disagio psicologico sono sotto trattamento farmacologico.

Gli ambiti di applicazione della farmacopsicologia clinica sono molteplici e fanno riferimento allo studio degli effetti psicotropi dei trattamenti medici, allo studio delle variabili in grado di predire una buona risposta al trattamento, alle vulnerabilità indotte dal trattamento farmacologico stesso, all’interazione- infine- tra trattamento farmacologico e terapia psicologica.

Negli studi di efficacia di una determinata terapia farmacologica, spesso la rilevazione del funzionamento psicologico è circoscritta all’ambito dei sintomi per cui il farmaco è stato predisposto. La farmacopsicologia clinica indaga invece ad ampio respiro gli effetti del farmaco sul funzionamento psicologico del paziente, avvalendosi sia di una rilevazione da parte del medico che della percezione soggettiva del paziente. L’efficacia del trattamento farmacologico viene inoltra valutata in relazione ad uno specifico momento e attraverso l’evoluzione che la sintomatologia ha avuto per quella persona nel corso del tempo. Questo aspetto consente di porre attenzione sia ai prodromi (sintomi che sono preludio all’esordio di malattia) sia ai sintomi residuali (sintomi persistenti anche al termine del trattamento che costituiscono fattore di rischio per una ricaduta).

Un altro aspetto di cui si occupa la farmacopsicologia clinica è la rilevazione degli effetti collaterali o indesiderati del trattamento farmacologico così come la sua tossicità comportamentale.

Infine, farmacopsicologia clinica si occupa dell’interazione tra terapia farmacologica e terapia psicologica. Sono infatti possibili quattro esiti diversi di tale interazione: 1) l’efficacia dei due trattamenti combinati equivale alla somma dell’efficacia dei due trattamenti individuali; 2) l’efficacia dei due trattamenti combinati è maggiore della somma dell’efficacia dei due trattamenti presi singolarmente; 3) l’efficacia dei due trattamenti combinati è inferiore a quella dei trattamenti singoli; 4) l’effetto dei due trattamenti combinati equivale all’effetto singolo del trattamento più efficace.

La farmacopsicologia clinica permette di sviluppare un’impostazione di riferimento per la valutazione degli effetti desiderati e indesiderati del trattamento farmacologico, così come della personale esperienza del paziente in termini di cambiamento per il proprio benessere e qualità della vita.

Cosci, F., Guidi, J., Tomba, E., & Fava, G. A. (2019). The Emerging Role of Clinical Pharmacopsychology. Clinical Psychology in Europe, 1(2), 1-18. https://doi.org/10.32872/cpe.v1i2.32158

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VALUTARE I SINTOMI DI ASTINENZA: L’INTERVISTA “DID-W1”

I sintomi di astinenza da psicofarmaci non si presentano in modo uniforme e stabile nel tempo ma sono eterogenei e diversi da persona a persona.

Proprio per questo una buona pratica  è quella della valutazione individuale (Cooper et al., 2023). Il primo passo per poter affrontare tali sintomi è accertarne presenza e tipologia, differenziandoli invece da un eventuale ricaduta di malattia.

La persona che prende contatto con il nostro centro perché ha sintomi astinenziali da riduzione/sospensione di psicofarmaci, in particolare antidepressivi, inizierà un processo diagnostico attraverso colloqui clinici e specifici strumenti di valutazione, che consentiranno di arrivare a una diagnosi finale per impostare il percorso terapeutico.

All’interno di tale processo, uno degli strumenti impiegati in caso di astinenza da riduzione o sospensione di SSRI o SNRI è la “Diagnostic Clinical Interview for Drug Withdrawal 1 SSRI and SNRI”, indicata con l’acronimo “DID-W1” (Cosci et al., 2018). Si tratta di un’intervista clinica, divisa in moduli, che permette di distinguere tra le diverse sindromi di astinenza da riduzioen/sospensione di SSRI/SNRI.

Tale valutazione sintomatologica è basata sul lavoro di Chouinard e Chouinard (2015) e di Cosci e Chouinard (2020), che ha permesso di delineare una nuova classificazione delle sindromi di astinenza da riduzione o sospensione di SSRI/SNRI suddivisa in nuovi sintomi di astinenza (nuovi sintomi rispetto all’episodio di malattia iniziale), sintomi da rebound (ritorno dei sintomi iniziali di malattia con maggiore intensità) e disturbo persistente da post-astinenza (protrarsi di nuovi sintomi di astinenza e di sintomi da rimbalzo).

La necessità di una valutazione di questo tipo risiede sia nella corretta individuazione dei sintomi astinenziali, sia nell’importanza di distinguere tra sintomi di astinenza e ricaduta di malattia. Inoltre, l’intervista consente di accertare la presenza di nuovi sintomi psicologici risultanti da precedenti trattamenti farmacologici (un aspetto noto come comorbidità iatrogena).

La DID-W1 è la prima intervista diagnostica che permette di identificare e differenziare tra loro i sintomi di astinenza da riduzione o sospensione di SSRI o SNRI, rivestendo così un ruolo di primo piano sia dal punto di vista clinico e terapeutico.

Cooper RE, Ashman M, Lomani J, Moncrieff J, Guy A, et al. (2023) “Stabilise-reduce, stabilise-reduce”: A survey of the common practices of deprescribing services and recommendations for future services. PLOS ONE 18(3): e0282988. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0282988

Cosci F, Chouinard G, Chouinard VA, Fava GA. (2018). The Diagnostic clinical Interview for Drug Withdrawal 1 (DID-W1) – New Symptoms of Selective Serotonin Reuptake Inhibitors (SSRI) or Serotonin Norepinephrine Reuptake Inhibitors (SNRI): inter-rater reliability. Rivista di Psichiatria. 53(2):95-99

Chouinard G, Chouinard VA. New Classification of Selective Serotonin Reuptake Inhibitor Withdrawal. Psychother Psychosom 2015; 84(2):63-71. DOI: 10.1159/000371865

Cosci F, Chouinard G. Acute and Persistent Withdrawal Syndromes Following Discontinuation of Psychotropic Medications. Psychother Psychosom. 2020;89(5):283-306. doi: 10.1159/000506868.

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Sospensione farmacologica: indagine e confronto tra i servizi esistenti nel mondo

Il sistema sanitario inglese ha recentemente individuato come area di attenzione per la salute pubblica i sintomi di astinenza derivanti dalla sospensione di farmaci, tra cui ad esempio antidepressivi e benzodiazepine.

In particolare, è stata chiaramente esplicitata la necessità di predisporre specifici centri per affrontare i problemi di dipendenza da farmaci precedentemente prescritti. Questo ambito di intervento è infatti ancora poco strutturato e sono tuttora in fase di definizione le relative linee guida.

Proprio con lo scopo di individuare le “best practices” cui fare riferimento per la riduzione ed eventuale sospensione dei farmaci, Cooper e collaboratori hanno svolto la prima indagine scientifica finora condotta per mettere a confronto metodi di valutazione e intervento tra i servizi esistenti per la dismisisone degli psicofarmaci, individuando in tutto il mondo tredici strutture o servizi dedicati.

CsP Alas è stato uno tra i servizi inclusi nell’indagine compiuta – l’unico esistente nella realtà italiana –  contribuendo a delineare metodi di valutazione e prassi di intervento per la dismissione psicofarmacologica all’interno della comunità medico-scientifica internazionale.

Dall’indagine compiuta sono emerse buone pratiche di intervento, tra le quali in particolare:

– una valutazione iniziale della storia del paziente, relativamente a sintomi, farmaci assunti nel corso della propria vita, tentativi di dismissione e sintomi di astinenza insorti;

– una sospensione psicofarmacologica realizzata in modo graduale, flessibile ed individualizzato;

– un percorso psicologico per affrontare le manifestazioni di astinenza dal farmaco e sviluppare nuove strategie di gestione dei sintomi.

Il lavoro svolto dagli autori della ricerca e la sollecitazione compiuta all’interno della realtà inglese dimostrano la crescente attenzione al tema della sospensione farmacologica, così come la necessità di servizi dedicati a questo ambito di intervento, le cui peculiarità cliniche rendono indispensabile una specifica formazione degli operatori e una metodologia di intervento personalizzata per ciascun paziente.

Cooper RE, Ashman M, Lomani J, Moncrieff J, Guy A, et al. (2023) “Stabilise-reducestabilise-reduce”: A survey of the common practices of deprescribing services and recommendations for future services. PLOS ONE 18(3): e0282988. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0282988

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Astinenza da psicofarmaci: un profilo

In letteratura la problematica relativa alla riduzione o sospensione di psicofarmaci è sempre più studiata o discussa. E’ per esempio evidente che gli psicofarmaci posso dare problemi di astinenza al momento della riduzione o sospensione. In passato, e sfortunatamente ancora oggi, questi fenomeni clinici  sono stati spesso spiegati con la ripresa della malattia originaria a seguito dell’interruzione dello psicofarmaco (soprattutto se la riduzione era stata rapida), oggi invece è chiaro che la riduzione (lenta o rapida che sia) o la sospensione di un antidepressivo SSRI o SNRI può attivare una sintomatologia astinenziale. La prevalenza di questi sintomi, in passato molto minimizzata, raggiunge in realtà il 54% fra adulti con disturbi psicologici di grave entità.

A seguito dell’interruzione di antidepressivi SSRI o SNRI sono possibili sintomi somatici, quali scosse nel corpo o a livello di testa e collo, capogiri, formicolii agli arti, debolezza, emicrania, nausea, tremore, diarrea, disturbi della vista, che psicologici, quali ad esempio ansia, insonnia, irritabilità, unitamente ad un forte senso di angoscia e, spesso, insonnia.

A questo proposito, è fondamentale un corretto inquadramento dei sintomi affinché non siano erroneamente interpretati come ripresentarsi del disturbo iniziale per il quale quello specifico SSRI o SNRI era stato assunto. Un corretto inquadramento diagnostico è fondamentale per evitare di utilizzare una strategia, comune ma errata, di reintrodurre il farmaco la cui riduzione o sospensione ha generato l’astinenza. Fare questo significa lasciare il paziente in un circolo vizioso e posticipare il problema legato all’azione iatrogena del farmaco stesso.

Da notare che tipicamente la ricaduta di malattia, a differenza dei sintomi di astinenza, è ad esordio graduale e di gravità simile all’episodio precedente. I sintomi di astinenza tendono invece ad avere un esordio improvviso rispetto al momento della riduzione o sospensione del farmaco e si presentano con un’intensità sintomatologica maggiore rispetto al passato, accompagnandosi spesso ad un cambiamento nel decorso della malattia, alla perdita di efficacia del farmaco e a resistenza o refrattarietà al trattamento stesso.

La letteratura ha identificato tre tipologie di sindrome di astinenza a seguito dell’interruzione o riduzione di uno psicofarmaco:

  • Nuovi sintomi da astinenza: comparsa di nuovi sintomi rispetto all’episodio di malattia, con durata fino a 6 settimane;
  • Sintomi da rebound: ritorno dei sintomi originari di malattia con una maggiore intensità rispetto a prima del trattamento;
  • Disturbo persistente da post-astinenza: protrarsi dei nuovi sintomi di astinenza oltre 6 settimane e/o emergere di nuovi sintomi o disturbi.

Cosci, Chouinard e colleghi (2018) hanno messo a punto un’apposita intervista per la valutazione e la classificazione dei sintomi di astinenza sopra descritta, si tratta della Diagnostic Clinical Interview for Drug Withdrawal 1 SSRI and SNRI. L’uso di questo strumento, così come l’inquadramento e la definizione dei sintomi di astinenza richiedono che i clinici abbiano ricevuto una formazione specifica.

Una simile valutazione risulta di fatto il primo imprescindibile passo per poter accertare la presenza di sintomi di astinenza e decidere se e come impostare il trattamento psicofarmacologico, nonché l’opportunità oi meno di integrare con un intervento non farmacologico.

Unitamente all’approccio farmacologico, per affrontare i sintomi di astinenza la letteratura ha indicato l’importanza di un percorso di psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale, che permetta alla persona di acquisire le abilità necessarie ad affrontare i sintomi. Bisogna infine considerare l’importanza di un approccio terapeutico, quello della Well-being Therapy, che permetta a clinico e paziente di focalizzarsi non soltanto sulle aree problematiche ma anche sul benessere psicologico.

Infatti, una piena guarigione non significa soltanto una regressione dei sintomi con un ritorno ad un livello di funzionamento precedente all’insorgenza della malattia, quanto un percorso verso il raggiungimento di uno stato di equilibrio mentale e di vita e la cura del proprio benessere psicologico.

BIBLIOGRAFIA

Cosci F, Chouinard G. (2020). Acute and Persistent Withdrawal Syndromes Following Discontinuation of Psychotropic Medications. Psychotherapy and Psychosomatics. 89(5):283-306.

Cosci F, Chouinard G, Chouinard VA, Fava GA. (2018). The Diagnostic clinical Interview for Drug Withdrawal 1 (DID-W1) – New Symptoms of Selective Serotonin Reuptake Inhibitors (SSRI) or Serotonin Norepinephrine Reuptake Inhibitors (SNRI): inter-rater reliability. Rivista di Psichiatria. 53(2):95-99

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Preoccupazioni per la salute

È esperienza comune e diffusa quella di preoccuparsi riguardo a sensazioni o sintomi fisici: di fatto a molti sarà capitato almeno una volta di mettersi in ascolto di sensazioni corporee più o meno dolorose, per captarne l’evoluzione e decidere il da farsi.

Tuttavia quando la preoccupazione per la propria condizione di salute diventa intensa, duratura e non si placa a fronte di accertamenti medici rassicuranti, allora potrebbe trattarsi di un disturbo d’ansia; il disturbo d’ansia da malattie.

In questa condizione si ha una costante e sproporzionata preoccupazione per la salute, che può portare la persona ad un evitamento sistematico di ambienti medico-ospedalieri e di informazioni riguardanti malattie (nel tentativo di non innescare relativi timori e rinunciando allo stesso tempo alla possibilità di disconfermarli) oppure alla ricerca continuativa di pareri e visite mediche (in un alternarsi di momentanea rassicurazione e successiva ricomparsa del timore). In questo secondo caso, un ruolo importante può avere la ricerca online di informazioni mediche: quando questa strategia viene adoperata in modo massiccio e persistente, alcuni autori parlano di cybercondria. Questo tipo di comportamento aumenta di fatto la probabilità di interpretazioni catastrofiche delle proprie sensazioni fisiche, espone la persona ad informazioni multiple, contraddittorie e a volte false, promuove un rimuginio ansioso e un’attenzione ancorata al corpo.

Come si può desumere da quanto fin qui descritto, il disturbo d’ansia da malattie vede presente sia una componente cognitiva (interpretazioni catastrofiche di sensazioni o sintomi fisici effettivamente presenti) sia una componente comportamentale (ricerca e/o evitamento di informazioni e rassicurazioni): questi due aspetti tendono a rinforzarsi vicendevolmente mantenendo quindi attiva la preoccupazione e rendendo ininfluenti eventuali informazioni positive circa il proprio stato di salute.
La terapia cognitivo-comportamentale permette di affrontare questo disturbo d’ansia, intervenendo sia sulla componente cognitiva che su quella comportamentale in modo collaborativo con il paziente.

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Psicoterapia cognitivo-comportamentale: una breve introduzione

Chi inizia un percorso di psicoterapia, spesso si trova di fronte ad una molteplicità di approcci e di metodi di lavoro diversi tra loro. Oltre a ciò, ogni persona ha idee, più o meno implicite e più o meno articolate, su come difficoltà e temi personali dovrebbero essere affrontati- anche sulla base di eventuali percorsi psicologici già sperimentati in passato. Tutto ciò rende i primi incontri di psicoterapia particolarmente delicati: un paziente ad esempio potrebbe non comprendere il metodo del terapeuta o potrebbe trovarsi di fronte ad un approccio profondamente diverso da quello atteso. Nella prima fase di un percorso è perciò importante che il paziente possa chiedere le informazioni necessarie a comprendere l’approccio del terapeuta, condividendo eventuali dubbi e aspettative. Proprio per questo la terapia cognitivo-comportamentale dedica del tempo a questo primo passo, importantissimo sia per creare una cornice condivisa sia per stabilire una vera e propria alleanza terapeutica. Una delle caratteristiche precipue dell’approccio cognitivo-comportamentale è quella di basarsi su un metodo collaborativo, cioè fare squadra per affrontare il problema. Oltre a ciò, viene data importanza ad interventi di psicoeducazione, necessari per acquisire consapevolezza riguardo la natura dei sintomi riportati. L’obbiettivo è far acquisire alla persona strumenti specifici per affrontare gradualmente le difficoltà. Per questo motivo, l’analisi della situazione non avviene in astratto ma a partire da situazioni concrete, che viene chiesto di monitorare su un apposito diario tra un incontro e l’altro.  In questo modo il tempo trascorso tra le sedute non è un momento di vuoto o di arresto ma un’occasione per proseguire nel lavoro terapeutico mettendo in pratica quanto appreso. Alla persona si richiede una partecipazione attiva nell’apprendimento della gestione dei sintomi, sempre attraverso una modalità calmierata, graduale e concordata in anticipo con il terapeuta. Il focus dell’approccio è sull’esperienza stessa: pensieri ed emozioni sperimentati in diretta offrono possibilità di comprensione ed intervento molto più ampi rispetto a considerazioni ampie e generali effettuate a posteriori.

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Rimuginio e problemi del sonno

A chi non è mai capitato, pronto a dormire al termine di una lunga giornata, di girarsi e rigirarsi nel letto con la mente che si affolla di pensieri e preoccupazioni? Pensieri magari rimasti dietro le quinte della nostra consapevolezza balzano improvvisamente in primo piano, veri e propri magneti per l’attenzione.
In effetti, il fatto stesso di non essere impegnati in una specifica attività (come durante la routine quotidiana) fa sì che il momento di andare a dormire sia proprio quello in cui i processi attentivi abbiano più difficoltà a disingaggiarsi da pensieri e preoccupazioni.

Ciò comporta un disagio che è in certa misura fisiologico se preoccuparsi è presente in concomitanza di situazioni complesse o decisioni difficili da prendere, restando quindi circoscritto nel tempo, e se non impatta in modo significativo sul nostro benessere e funzionamento quotidiano.

Tuttavia, in alcuni disturbi d’ansia, la preoccupazione si struttura come un vero e proprio rimuginio, cioè uno stile di pensiero ripetitivo e analitico che propone e ripropone alla mente ipotetici scenari negativi ogni volta diversi (come il criceto che corre e corre ma è sempre nella stessa ruota). Anche se il rimuginio viene inizialmente intrapreso con il proposito di affrontare e risolvere una questione o di gestire uno stato d’animo, ben presto il paziente resta invischiato in processi di pensiero che passano da uno scenario catastrofico all’altro, peggiorando lo stato emotivo di partenza e non giungendo ad una conclusione concreta sul da farsi. Il rimuginio diventa un vero e proprio sintomo difficile interrompere e può anche essere percepito come incontrollabile. In realtà proprio il fatto di essere un processo astratto, non orientato al problema e quindi non concreto, rende difficile porvi termine giungendo ad uno specifico piano di azione. L’indeterminatezza degli scenari con cui ci confrontiamo aumenta il senso di pericolo percepito e rende difficile giungere ad una soluzione favorendo così una percezione di bassa efficacia personale.

Il rimuginio può presentarsi in concomitanza dell’addormentamento aumentando lo stato di attivazione fisiologica della persona ed interferendo anche significativamente con la qualità del sonno. In alcuni casi, si può creare un’associazione- condizionamento- tra il momento di addormentarsi e lo stato d’ansia. Il momento di addormentarsi viene quindi atteso con preoccupazione ed innesca un ulteriore rimuginio sulla qualità del proprio sonno oppure sulle possibili conseguenze delle difficoltà ad addormentarsi, mantenendo quindi lo stato di ansia e le difficoltà stesse legate al sonno (è la persona che già da pomeriggio comincia a pensare “riuscirò a dormire questa notte?”).

In questi casi risulta fondamentale una valutazione clinica per eventualmente intraprendere un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale, riconosciuta dalla comunità scientifica come trattamento psicologico di prima scelta.

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Agorafobia: il ruolo dell’accompagnatore 

In alcuni disturbi di ansia, il soggetto che ne soffre può richiedere la presenza di un accompagnatore per lo svolgimento delle proprie attività quotidiane. La persona può sentire di non essere in grado, senza qualcuno che la accompagni e le sia di sostegno, di recarsi al supermercato o compiere in auto il tragitto per andare a lavoro oppure prendere un autobus. Per chi la riceve, tale richiesta può risultare strana o poco comprensibile, specialmente per la percezione di dover compiere quello che potrebbe sembrare un semplice atto di presenza, senza il quale la persona che soffre di ansia può anche rinunciare ad uscire di casa. Queste richieste di accompagnamento possono comportare una ri-organizzazione della routine quotidiana tutt’altro che semplice e diventare fonte di attriti e contrasti relazionali con partner e familiari, che possono oscillare tra fermi rifiuti e riluttanti assensi.

La presenza di un accompagnatore risulta particolarmente ricercata nei casi di agorafobia, si tratta cioè di un disturbo d’ansia caratterizzato dalla paura di trovarsi in situazioni dalle quali sarebbe difficile o imbarazzante sottrarsi o ricevere aiuto in caso di bisogno. Così, chi soffre di agorafobia, può temere di stare in luoghi affollati o trovarsi in un ingorgo nel traffico o in fila allo sportello della posta oppure dover prendere autostrade o attraversare ponti o viadotti o ancora essere costretto in luoghi da cui non è facile uscire come essere per esempio seduti nella parta centrale della fila delle poltrone di un cinema. Di fronte alla possibilità di dover affrontare queste situazioni nel futuro prossimo, la persona può sperimentare una forte preoccupazione, nota come ansia anticipatoria.

A fronte di queste preoccupazioni, la possibilità di essere accompagnato da un’altra persona può risultare rassicurante, rendendo tollerabile l’ansia di trovarsi in un determinato ambiente o situazione. L’accompagnatore (amico, partner o familiare), svolge in questo caso il ruolo di compagno accompagnatore e viene percepito come un potenziale soccorritore in caso di bisogno. Ciò permette quindi a chi soffre di agorafobia di esporsi a situazioni potenzialmente fonti di ansia, senza avere eccessiva ansia. Tuttavia, se da un lato l’accompagnatore può consentire al soggetto di mantenere una funzionalità quotidiana e affrontare situazioni altrimenti evitate, dall’altro l’agorafobico continua a non verificare di poter affrontare la stessa situazione con le proprie forze, aspetto questo che mantiene elevata l’ansia.

Nel superamento di questo disturbo, risulta particolarmente indicata dalla letteratura la psicoterapia cognitivo-comportamentale, che attraverso un approccio di esposizione graduale e calmierata alle situazioni temute (eventualmente con la collaborazione di chi è stato eletto a compagno accompagnatore) ed un lavoro psicologico sulle preoccupazioni del soggetto, permette di interrompere i fattori psicopatologici che mantengono questo disturbo d’ansia.

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ANSIA di cosa si tratta? 

La parola “ansia” è certamente tra le più diffuse ed impiegate del nostro tempo, assumendo così una varietà di significati veicolanti esperienze, psicopatologiche e non, anche molto diverse tra loro.

Così, se certamente tutti quanti possiamo dire di aver fatto esperienza dell’ansia, è allo stesso tempo vero che all’interno dell’ambito psicopatologico questo termine assume un significato ben preciso con il quale sono indicate una serie di reazioni cognitive, fisiologiche ed emotive integrate tra loro, che si attivano a fronte della percezione (accurata o meno) di un pericolo.

In particolare, a seguito dell’avvenuta percezione di una minaccia, il nostro sistema nervoso periferico attiva quella che viene chiamata “risposta attacco/fuga”, che prepara l’organismo ad evitare il pericolo o, laddove non sia possibile, ad ingaggiare una lotta con esso. Ecco quindi che il nostro corpo si prepara all’azione, aumentando il battito del cuore ed il ritmo della respirazione, pompando maggiore sangue ai distretti muscolari di braccia e gambe, dilatando le pupille. Allo stesso tempo sono sospese tutte le funzioni corporee non necessarie alla sopravvivenza e non utili ad affrontare un pericolo, come la digestione.

Parallelamente a queste risposte fisiologiche, avvengono reazioni anche sul piano cognitivo: l’attenzione si focalizza sulla minaccia e la memoria può ricordare episodi più o meno simili a quello presente, con lo scopo di replicare ciò che ha funzionato in passato. I pensieri possono farsi rapidi, susseguendosi velocemente l’uno all’altro in una rapida analisi della situazione. Con questo tipo di risposta, l’intero nostro organismo si prepara ad agire, attraverso una modalità che nel corso della storia evolutiva si è rivelata utile per affrontare i pericoli dell’ambiente circostante. Ansia e paura risultano così esperienze emotivi affini, sebbene non identiche.

Nella paura ciò che temiamo è ben definito ed imminente, quando sperimentiamo ansia anticipiamo invece un pericolo facendo una previsione su uno scenario che risulta per questo più vago ed indefinito. La vaghezza della minaccia è un aspetto che può contribuire ad aumentare la percezione di pericolo e a sottostimare le nostre capacità di affrontarlo. A questo proposito, possiamo indicare che il livello di ansia risulterà tanto maggiore quanto maggiore è stimata la pericolosità di un evento e la sua probabilità di accadimento e tanto minore è stimata la capacità di fronteggiarlo o di sopportarne le conseguenze.

L‘ansia è una reazione di tipo fisiologico e adattivo che, entro certi livelli, può incrementare la performance, attraverso una “accensione” di mente e corpo sulla situazione da affrontare. Tuttavia l’attivazione ansiosa può anche risultare eccessiva e persistente, ostacolando il normale funzionamento sociale e lavorativo della persona. In questi casi l’ansia diventa patologica ed è opportuna una valutazione clinica per stabilire la diagnosi, se appropriata, e l’eventuale conseguente intervento.

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Antidepressivi e problemi sessuali: quale legame? 

Il rapporto tra depressione e problemi sessuali è certamente complesso e sfaccettato.
Infatti la sintomatologia depressiva può includere sintomi di pertinenza del funzionamento sessuale come ad esempio il crollo del desiderio. Inoltre sono da considerare fattori biologici o inerenti lo stile di vita che influenzano negativamente la sessualità come per esempio una malattia fisica o il consumo eccessivo di alcol  e che pur non essendo parte integrante dei sintomi depressivi possono essere ad essi associati. Infine, ma non meno importante, gli episodi depressivi possono essere associati a conflitti con il/la partner che possono influenzare la sessualità nella coppia.

Oltre a ciò, tuttavia, è stato documentato il legame tra alcuni tipi di farmaci antidepressivi ed alcune disfunzioni sessuali: in particolare la ricerca scientifica ha evidenziato che gli SSRI, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, e gli SNRI, gli inibitori della ricaptazione di serotonina e noradrenalina, possono avere un’azione iatrogena.

L’assunzione di questi farmaci è talvolta seguita da alcuni effetti collaterali, tra cui proprio problematiche sessuali, la più frequente delle quali è il calo del desiderio sessuale ma anche difficoltà nell’eccitazione e nel raggiungimento dell’orgasmo. Quando tali problematiche sono da attribuire all’uso dei farmaci, la loro insorgenza avviene tipicamente dopo l’inizio della terapia farmacologica e le difficoltà sessuali sono presenti sia durante masturbazione che durante rapporti sessuali.

Tuttavia, i sintomi, se sono effetti collaterali, tendono a risolversi con la conclusione della terapia stessa. Tuttavia non è infrequente osservare un perdurare della sintomatologia anche dopo la conclusione del trattamento con SSRI o SNRI. In questo caso non si tratta più di effetti collaterali della terapia ma di un’azione iatrogena di essa.

Questo tipo di problematica è oggi riconosciuta nella letteratura scientifica e prende il nome di disturbi sessuali post-SSRI. I sintomi riferiti riguardano calo del desiderio sessuale, difficoltà nel raggiungere eccitazione ed orgasmo, diminuita sensibilità dell’area genitale e diminuita capacità di sperimentare piacere sessuale, ma oltre ad interessare la sfera sessuale riguardano in modo più ampio anche quella emotiva soprattutto per un appiattimento affettivo generalizzato e rilevante.

Le cause della suddetta sintomatologia non sono al momento accertate, sembrano tuttavia presenti fattori legati ai meccanismi di azione del farmaco unitamente ad una vulnerabilità individuale di base (dal momento che non tutti gli utilizzatori di SSRI sperimentano tali sintomi).

La presenza di queste problematiche necessita di un’accurata attenzione congiunta di medico e paziente, per valutarne cause e strategie di gestione, e, spesso, di un supporto psicologico.

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Natale: l’influenza dell’inverno sul nostro “meteo” interiore

L’ingresso nel periodo natalizio può segnare per molti l’inizio di un momento difficile e stressante. Se da un lato sono certamente presenti occasioni di festa e divertimento, addobbi e luci, dall’altro è stato osservato che in questo momento dell’anno il rischio di inflessioni del tono dell’umore è più alto.


A questo fenomeno contribuiscono il sommarsi di una serie di concause molto diverse tra loro; di tipo biologico, relazionale, sociologico e persino meteorologico. Il diminuire delle ore di luce comporta, infatti, una serie di cambiamenti nel nostro sistema nervoso che hanno lo scopo di adattare i nostri ritmi circadiani al nuovo andamento stagionale: adattamenti  che non sempre avvengono con facilità. Il livello di stress percepito è inoltre incrementato dalla corsa ai regali e dalle riunioni familiari, che portano con sé incontri più o meno piacevoli. Inoltre, il periodo natalizio può associarsi a ricordi che riportano alla perdita delle persone care, con l’emergere di un conseguente senso di solitudine. Bisogna infine aggiungere le eventuali difficoltà lavorative (specialmente per occupazioni di tipo stagionali) e la tendenza ad un maggior rimuginio con lo scopo di effettuare bilanci dell’anno in conclusione o di formulare propositi per l’anno in arrivo. Questo comporta un’attenzione selettiva rispetto agli obiettivi non raggiunti, predisponendo a sottovalutare risorse e successi effettivamente presenti.

Come conseguenza possono spesso manifestarsi alterazioni dell’umore, del sonno, dell’alimentazione e del livello di energia percepito: ciò che è colloquialmente noto come “Christmas blues”.
Il “Christmas blues”, che solitamente tende a risolversi in modo spontaneo con la conclusione delle feste, deve essere ben distinto dal “Disturbo Affettivo Stagionale”.

Il Disturbo Affettivo Stagionale, infatti, è caratterizzato da episodi depressivi ricorrenti ad andamento stagionale, per almeno due anni. In questi casi non siamo quindi di fronte ad una oscillazione del tono dell’umore ma ad un vero e proprio esordio depressivo, in concomitanza con l’ingresso nella stagione estiva o, più frequentemente, in quella invernale. L’esordio è spesso graduale, con una comparsa della sintomatologia durante l’autunno ed un suo acuirsi con l’inizio dell’inverno. In questi casi risulta certamente necessaria una valutazione da parte di un clinico esperto nel campo affinché formuli la diagnosi corretta che permetta poi di strutturare un trattamento efficace, che vede spesso l’affiancarsi di farmacoterapia e psicoterapia cognitivo-comportamentale.

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Centro di Scienze Psicologiche Alas

Il Centro di Scienze Psicologiche Alas – CSPAlas – è uno spin-off accademico riconosciuto dall’Università degli studi di Firenze. Il Centro nasce nel 2019 sulla base di un progetto clinico e scientifico promosso dalla Prof.ssa Fiammetta Cosci, professore associato in Psicologia Clinica dell’Università degli Studi di Firenze e coordinatore scientifico del centro. CSPAlas ha l’obiettivo di far confluire in una stessa rete di professionisti della salute mentale, la ricerca scientifica e l’attività clinica. Propone, inoltre, alle persone che vi si rivolgono una valutazione attenta ed accurata in base alla quale offrire un percorso di cura ancorato all’evidenza scientifica ed in grado di rispondere ai bisogni presentati dal soggetto.
CSPAlas offre:

  • valutazioni atte a verificare la presenza di un disagio psicologico;
  • valutazioni atte a verificare la presenza un di problema inerente la salute mentale;
  • psicoeducazione;
  • colloqui di supporto;
  • percorsi di psicoterapia e farmacoterapia rivolti a pazienti che presentano disturbi psichiatrici, in particolare disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e disturbo ossessivo compulsivo, che presentano disturbi psicosomatici, che presentino un disagio psicologico che può essere spiegato o secondario ad una malattia fisica;
  • percorsi di psicoterapia e farmacoterapia rivolti a pazienti che richiedono di ridurre razionalizzare o sospendere la terapia con psicofarmaci, ove adeguato;
  • psicoterapia della famiglia;
  • percorsi di psicoterapia atti ad accrescere o generare il benessere psicologico dell’individuo.

Gli approcci psicoterapici adottati sono di tipo cognitivo comportamentale, sistemico relazionale, terapia breve per il benessere psicologico.
I professionisti del centro hanno l’obiettivo di supportare i pazienti a ritrovare un proprio equilibrio e, il più possibile, una condizione di armonia. Naturalmente ciò è possibile se vi è piena collaborazione e rilevante impegno da parte dei pazienti.

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Bene come il sale

Il nome del Centro riporta la parola “Alas” che in greco vuol dire “sale”. Si tratta di una parola che richiama l’importanza essenziale del sapere, dell’ingegno e della saggezza. Un granello di sale è umile e poco appariscente, ma in realtà è necessario per la buona riuscita di un piatto saporito, così come di un’idea, di un progetto. D’altronde, avere del “sale in zucca” vuol dire possedere doti di raziocinio e capacità di giudizio, e “non sapere né di sale né di pepe” vuol dire essere poco interessanti, insignificanti, appunto “insipidi”. Allo stesso tempo il sale era, in antichità, simbolo di accoglienza e amicizia, di alleanza incorruttibile. Il significato simbolico del sale si ritrova anche in una favola di Italo Calvino, di cui proponiamo la lettura:

Bene come il sale (liberamente tratto da: Fiabe italiane, Italo Calvino, ed. Oscar Mondadori)

C’era una volta un Re, che aveva tre figlie e tre troni: uno bianco dove sedeva quando era contento, uno rosso per i giorni così e così e uno nero che sceglieva quando era veramente in collera. Un giorno si sedette sul trono nero e chiese alle sue tre figlie: “Quanto mi volete bene?”. La maggiore rispose: “Ti voglio bene come il pane!” e il Re ne fu compiaciuto; la mezzana rispose: “Ti voglio bene come il vino!” e il Re ne fu rasserenato, ma la terza rispose: “Ti voglio bene come il sale!” e il Re si infuriò tanto che voleva ucciderla. La Regina capì che c’era da correre ai ripari: nascose la figlia in un grande candelabro e lo vendette al mercato. Il candelabro, per fortuna, fu comprato da un Principe, che appena vide la principessa saltare fuori se ne innamorò e la volle sposare. Quando la madre del Principe si fece raccontare la storia della principessa saltata fuori dal candelabro, ebbe compassione di lei e decise di aiutarla. Volle invitare ad un grande banchetto tutti i regnanti dei paesi vicini, tra cui anche genitori della principessa, ma nel piatto del Re diede ordine di non mettere nemmeno un granello di sale. Il Re masticava, masticava, ma i piatti erano così insipidi che era difficile mandare giù un solo boccone! In quel momento gli tornarono in mente le parole della figlia e gli prese un rimorso, un tale dolore che ruppe in lacrime e raccontò alla Regina sua ospite cosa aveva fatto. Allora la Regina si alzò e andò a chiamare la ragazza. Il padre corse ad abbracciarla, pianse di felicità e gli parve di resuscitare. Così celebrarono le nozze tra la principessa e il principe.

Nel complesso e talvolta faticoso cammino che la persona fa per ritrovare una dimensione libera il più possibile dal disagio psicologico, il Centro si pone l’obiettivo di offrire dei “granelli di sale” partecipando al verificarsi dell’arricchimento personale, sociale e culturale dei propri pazienti.