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Le sindromi psicosomatiche

La medicina psicosomatica è un ampio campo di indagine che si occupa delle influenze reciproche tra fattori biologici, sociali, psicologici e del loro effetto sulla salute.

Da questo grande campo di studi si sono originati i criteri diagnostici per la ricerca psicosomatica (o DPCR), che hanno rappresentato una “traduzione” a livello clinico e operativo della grande mole di ricerca di questo settore disciplinare. I DPCR cono costituiti da un set di sindromi psicosomatiche, che la letteratura ha dimostrato avere influenza sullo sviluppo e decorso di condizioni mediche.

Possiamo così individuare:

  • Carico allostatico: con cui ci si riferisce alla presenza di una fonte di stress, recente o cronica, che sovrasta le capacità di fronteggiamento individuali;
  • Demoralizzazione: una sensazione caratterizzata dalla percezione di aver fallito nel corrispondere alle aspettative proprie o altrui;
  • Umore irritabile: viene vissuto come spiacevole dalla persona e gli scoppi d’ira mancano di effetto catartico e liberatorio;
  • Comportamento di tipo A: può essere caratterizzato da eccessivo coinvolgimento nel lavoro, pervasivo senso di urgenza, aspetti espressivi o motori che denotano il sentirsi sotto pressione, ostilità, cinismo, umore irritabile, tendenza ad accelerare attività fisiche o mentali, bisogno di riconoscimento, alta competitività;
  • Alessitimia: difficoltà ad esprimere in parole le proprie emozioni; tendenza a soffermarsi sui dettagli invece che sui sentimenti, scarsa fantasia, contenuti di pensiero associati ad eventi esterni piuttosto che alla propria vita interiore, mancanza di consapevolezza riguardo le reazioni somatiche che si accompagnano agli stati emotivi, occasionali scoppi emotivi.

Un altro gruppo di sindromi fa riferimento ad un comportamento di malattia inappropriato, fra queste possiamo trovare:

  • Ipocondria: preoccupazione di avere una malattia, basata su errate interpretazioni di sensazioni fisiche;
  • Ansia per la salute: preoccupazioni generali riguardo la salute e amplificazione di sintomi somatici;
  • Fobia di malattia: timore infondato di avere una malattia, che si manifesta con episodi acuti di ansia piuttosto che con preoccupazioni croniche come per l’ipocondria;
  • Tanatofobia: timore infondato di morte imminente;
  • Somatizzazione persistente: disturbo medico di natura funzionale;
  • Sintomi di conversione: sintomi che affliggono il sistema motorio/sensoriale, in assenza di impedimenti organici;
  • Reazione da anniversario: sintomi di arousal/conversione/ disturbo medico funzionale che insorgono quando il paziente raggiunge l’età o si trova nel periodo dell’anno in cui un proprio familiare ha sviluppato una certa malattia o è morto. Il paziente non è consapevole di questa associazione;
  • Diniego di malattia: persistente rifiuto di avere una determinata malattia, nonostante la diagnosi di quest’ultima sia stata adeguatamente illustrata e spiegata al paziente, che rifiuta quindi di curarsi.

Una valutazione complessiva degli aspetti psicosociali, risulta particolarmente utile in alcune circostanze. Questo può essere vero, ad esempio, a fronte di sintomi non attribuibili a condizioni mediche o in caso di una risposta parziale/guarigione incompleta. È inoltre raccomandabile una valutazione più ampia quando sintomi di natura psichiatrica possono influenzare il decorso o il trattamento di malattie organiche. 

Cosci F, Fava GA. The clinical inadequacy of the DSM-5 classification of somatic symptom and related disorders: an alternative trans-diagnostic model. CNS Spectr. 2016 Aug;21(4):310-7. doi: 10.1017/S1092852915000760. Epub 2015 Dec 28. PMID: 26707822.

Fava GA, Cosci F, Sonino N. Current Psychosomatic Practice. Psychother Psychosom. 2017;86(1):13-30. doi: 10.1159/000448856. Epub 2016 Nov 25. PMID: 27884006.

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Depressione: come affrontare le ricadute?

Il disturbo depressivo tende ad essere una condizione ricorrente; è purtroppo possibile l’insorgenza di una ricaduta. La probabilità di questa occorrenza dipende da vari fattori, tra cui i più rilevanti sono il numero di episodi depressivi sperimentati in passato e la presenza di sintomi residuali.

L’approccio più frequente per la prevenzione e la gestione delle ricadute depressive è il prolungamento della terapia farmacologica. Questo approccio presenta tuttavia numerosi svantaggi. In primo luogo, l’efficacia degli antidepressivi tende a ridursi nel tempo. Inoltre, una somministrazione farmacologica prolungata comporta possibili effetti collaterali (come aumento di peso, problematiche della sfera sessuale, rischi di fratture e osteoporosi). E’ necessario poi prendere in considerazione lo stato di salute del paziente e le eventuali malattie in corso, per i possibili effetti di interazione tra malattie organiche e antidepressivi. Bisogna infine notare che una volta sospeso il trattamento farmacologico, la possibilità di ricaduta non risulta più contenuta dalla precedente assunzione del farmaco e la persona si trova nuovamente esposta a questo rischio.

Un approccio alternativo al problema deriva dall’adottare il modello stadiale, secondo il quale piuttosto che valutare la sintomatologia in corso in un determinato momento temporale è utile vederne la progressione longitudinale, cioè nel tempo. I disturbi dell’umore tendono a seguire una evoluzione, considerando la quale è possibile proporre il trattamento più efficace per quel determinato momento della malattia. Secondo il modello stadiale, i sintomi residuali presenti al termine di un episodio depressivo sono da inquadrare come fattori di rischio di una possibile ricaduta ed intervenire su questi ha quindi uno scopo preventivo.

Se, tradizionalmente, è stato proposto un approccio combinato – usando in simultanea farmacoterapia e psicoterapia- le recenti evidenze suggeriscono che ciò apporti un incremento minimo dell’efficacia della sola farmacoterapia o della sola psicoterapia. In letteratura è stato quindi proposto un modello sequenziale, in cui le due tipologie di intervento sono introdotte non simultaneamente ma appunto in sequenza nel tempo. Nello specifico, durante la fase acuta della depressione può essere proposta la terapia farmacologica. Risolto l’episodio depressivo, può essere proposta la psicoterapia per far fronte ai sintomi residui. Questa tipologia di approccio richiede di impostare un piano di cura in accordo con il paziente, che deve essere coinvolto fin dalla progettazione dell’intervento, valutando eventuali dubbi e livello di motivazione.

Cosci F, Guidi J, Mansueto G, Fava GA. Psychotherapy in recurrent depression: efficacy, pitfalls, and recommendations. Expert Rev Neurother. 2020 Nov;20(11):1169-1175. doi: 10.1080/14737175.2020.1804870. Epub 2020 Aug 10. PMID: 32735486.

Cosci F, Mansueto G, Fava GA. Relapse prevention in recurrent major depressive disorder. A comparison of different treatment options based on clinical experience and a critical review of the literature. Int J Psychiatry Clin Pract. 2020 Nov;24(4):341-348. doi: 10.1080/13651501.2020.1779308. Epub 2020 Jul 27. PMID: 32716222.

Guidi J, Tomba E, Cosci F, Park SK, Fava GA. The Role of Staging in Planning Psychotherapeutic Interventions in Depression. J Clin Psychiatry. 2017 Apr;78(4):456-463. doi: 10.4088/JCP.16r10736. PMID: 28297594.

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Il carico allostatico

Lo studio degli eventi avversi e stressanti è da tempo un importante campo di ricerca; tanto che risulta ormai acclarato un loro impatto sulla salute fisica e psicologica. Se tradizionalmente è stato indagato il ruolo degli eventi stressanti più gravi e impattanti (come eventi traumatici), è ormai da tempo che viene riconosciuto il ruolo di eventi stressanti di minore intensità ma che possono presentarsi in modo continuativo o cronico.

La risposta allo stress da parte dell’organismo coinvolge numerosi sistemi corporei; dall’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, al sistema infiammatorio, dai neurotrasmettitori agli ormoni, reclutando così sia sistema nervoso centrale che periferico. Alla complessa mobilitazione fisiologica per far fronte allo stress è indubbiamente necessario aggiungere anche le caratteristiche psicologiche e le risorse ambientali disponibili di chi a quello stress fa fronte, oltre ai comportamenti non salutari che possono venire attuati di conseguenza (quali ad esempio ridotta attività fisica, consumo di alcol o ritiro sociale). Tutto ciò rende ragione della complessità del tema di ricerca e della difficoltà nel comprendere in modo chiaro e univoco le conseguenze di un certo stressor sulle condizioni di salute di uno specifico individuo. Proprio a questo proposito McEwen ha introdotto la centralità del costrutto di allostasi, definendolo come l’abilità dell’organismo di raggiungere la stabilità attraverso il cambiamento. Questa prospettiva riconosce come di fatto un funzionamento ottimale e salutare richieda costanti aggiustamenti e ricalibrazioni da parte dei processi fisiologici all’ambiente corporeo. Quando le sfide ambientali sono percepite come eccedenti le personali capacità di fronteggiamento e gestione, i sistemi di risposta allo stress sono ripetutamente attivati ed i sistemi protettivi risultano non adeguati. E’ quindi possibile parlare di sovraccarico allostatico se alla condizione di cui sopra sono associate compromissioni del sonno, umore basso, peggior funzionamento personale ed una sensazione di sopraffazione dalle richieste quotidiane. Gli studi confermano che un maggior carico allostatico sia associato a peggiori condizioni di salute. Proprio per questo la valutazione del carico allostatico risulta importante, ponendosi come fattore trasversale determinante in numerose condizioni mediche e psicologiche. Oltre che con i biomarcatori la presenza di carico allostatico viene valutata anche attraverso un modulo dell’intervista semistrutturata Diagnostic Criteria for Psychosomatic Research-Revised. A seguito di una sua corretta identificazione, è quindi possibile intervenire sia attraverso la terapia cognitivo-comportamentale (per modificare il proprio stile di vita e sviluppare nuove modalità di fronteggiare lo stress) che attraverso la terapia del benessere (o well-being therapy).

Cosci F, Fava GA. The clinical inadequacy of the DSM-5 classification of somatic symptom and related disorders: an alternative trans-diagnostic model. CNS Spectr. 2016 Aug;21(4):310-7.

Fava GA, Cosci F, Sonino N. Current Psychosomatic Practice. Psychother Psychosom. 2017;86(1):13-30.

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Di cosa parliamo quando parliamo di benessere

Il termine “benessere” è una parola entrata nell’uso corrente e impiegata in un’ampia varietà di contesti anche con accezioni diverse tra loro. Spesso, viene  usato come sinonimo di “felicità” o di “soddisfazione per la propria vita”, sebbene si tratti di un concetto piuttosto complesso che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha descritto come “uno stato positivo vissuto dagli individui e dalle società”.

L’interesse della ricerca scientifica su questo aspetto è relativamente recente. Ciò perché, al di là di singoli contributi e riflessioni da parte di alcuni autori, la ricerca psicologica si è volta fin dai suoi inizi ad indagare le cause della sofferenza e dell’infelicità umana piuttosto che il benessere.

Sono stati comunque  fondamentali per la conoscenza e la ricerca scientifica in ambito di benessere, autori quali Marie Jahoda, che ha operato già dalla fine degli anni ’50, ed anche Maslow, Rogers, Allport, Frankl e Erikson. Più recentemente, la sintesi della letteratura scientifica proposta da Jahoda è stata recuperata da una psicologa americana , Carol Ryff, che ha ripreso il quadro teorico precedentemente delineato ed ha provveduto a sottoporre a verifica empirica quanto proposto. Ryff, riprendendo Jahoda, ha proposto come elementi costitutivi alla base del benessere psicologico le seguenti sei dimensioni:

  1. Accettazione di sé: indica un’accettazione profonda di se stessi derivante dalla consapevolezza dei propri punti di forza e di debolezza che porta ad una visione complessiva positiva di sé.
  2. Presenza di buoni legami: indica l’esistenza di legami positivi, della capacità di costruire legami basati su fiducia, empatia e capacità di amare.
  3. Autonomia: fa riferimento ai costrutti di autodeterminazione, indipendenza, capacità di regolare il proprio comportamento dall’interno, fronteggiando quindi le pressioni sociali per potersi muovere sulla base delle convinzioni personali.
  4. Padronanza ambientale: sentirsi capace di padroneggiare e affrontare le difficoltà della vita in modo attivo. Comprende le abilità nel saper scegliere o costruire un ambiente adatto alle proprie caratteristiche personali, sapendo cogliere le opportunità che si presentano.
  5. Presenza di uno scopo di vita: indica la percezione di avere uno scopo e una direzione nella vita, da perseguire in modo attivo e intenzionale.
  6. Crescita personale: percezione di essere in continua evoluzione, all’interno di un percorso di crescita e miglioramento, in un’ottica di sviluppo e realizzazione personale.

Ryff ha quindi sviluppato la “Scala del benessere psicologico”, un test che è stato ampiamente utilizzato dalla ricerca psicologica per indagare il benessere e la sua rilevanza in un’ampia varietà di campi, compresi quelli relativi alla salute fisica e psicologica.

In anni più recenti, il concetto di benessere psicologico è stato ulteriormente raffinato, è stato infatti proposto anche un tipo di psicoterapia breve orientata al benessere. Tale terapia prende il nome di Well-Being Therapy ed ha la finalità di addestrare il paziente, o le persone, a utilizzare tecniche specifiche per produrre il proprio benessere o renderlo più solido. I professionisti del Centro di Scienze Psicologiche Alas hanno fatto un training specifico per poter utilizzare la Well-Being Therapy con i pazienti ed utilizzano quotidianamente questa tecnica, con ottimi risultati.

Fava, G. A. (1999). Well-being therapy: Conceptual and technical issues. Psychother Psychosom 68(4), 171-179

Fava, G.A., & Ruini, C. (2003). Development and characteristics of a well-being enhancing psychotherapeutic strategy: well-being therapy. J Behav Ther Exp Psychiatry, 34, 45-63

Ryff CD: Happiness is everything, or is it? Explorations on the meaning of psychological well-being. J Pers Soc Psychol 1989;57:1069– 1081.

Ryff CD. Psychological well-being revisited: advances in the science and practice of eudaimonia. Psychother Psychosom. 2014;83(1):10-28.

World Health Organization “Promoting well-being” consultato a: https://www.who.int/activities/promoting-well-being in data 04-10-2024

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Emicrania cronica e well-being therapy

L’emicrania è una condizione debilitante ampiamente diffusa nella popolazione generale. Da un punto di vista diagnostico, viene operata una distinzione tra emicrania episodica (con meno di 15 giorni con emicrania al mese) ed emicrania cronica (con 15 giorni o più di  emicrania al mese). Questa distinzione è rilevante poiché l’emicrania cronica è naturalmente la forma più debilitante ma anche quella più resistente alla terapia farmacologica  e quindi invalidante.

Per fronteggiare la condizione di emicranica cronica, viene spesso indicata la necessità di una combinazione di approccio farmacologico e psicologico. Un possibile approccio psicologico è rappresentato dalla  terapia breve del benessere (in inglese Well-Being therapy). La Well-Being Therapy si basa su un coinvolgimento attivo della persona, attraverso un approccio collaborativo tra paziente e terapeuta. Durante il percorso, la persona è incoraggiata a tenere un diario delle situazioni in cui sperimenta situazioni di benessere, per coglierne la  spontanea presenza durante la quotidianità. Questo approccio risulta particolarmente importante perché consente una scoperta guidata di ciò che il termine “benessere” significa nel concreto per ciascun paziente, nelle sue diverse e personali declinazioni. Parallelamente a ciò, la persona viene gradualmente istruita ad identificare pensieri e comportamenti che possono portare ad una prematura conclusione delle situazioni di benessere. Si tratta spesso di pensieri automatici (appena al di fuori della nostra consapevolezza) o di risposte comportamentali (spesso apprese nel tempo) che impediscono il pieno godimento della situazione di benessere. L’approccio fin qui delineato viene poi applicato alle varie dimensioni costitutive del benessere, per favorirne uno sviluppo armonico ed equilibrato.

I primi studi che hanno indagato l’efficacia della WBT per le persone con emicrania cronica, hanno dato risultati incoraggianti. I risultati preliminari hanno infatti rilevato una tendenziale diminuzione della frequenza di episodi di emicrania e un miglioramento dei sintomi depressivi così come del benessere personale. Uno dei possibili meccanismi di cambiamento implicati è lo spostamento di focus da parte del paziente. Le persone che hanno intrapreso un percorso di WBT riferiscono un cambiamento: dal tentativo di ridurre o eliminare il negativo (ad es. il numero di attacchi di emicrania) alla partecipazione ed impegno nel costruire il positivo, occasioni di benessere per vivere una vita allineata con i propri valori personali- al di là del dolore.

Mansueto, G., & Cosci, F. (2021). Well-Being Therapy for Depressive Symptoms in Chronic Migraine: A Case Report. Clinical Case Studies, 20(4), 296-309.

Mansueto, G., De Cesaris, F., Geppetti, P., & Cosci, F. (2018). Protocol and methods for testing the efficacy of well-being therapy in chronic migraine patients: A randomized controlled trial. Trials, 19(1), 561.

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Il comportamento di malattia: fattore prognostico e trans-diagnostico

Persone che condividono una stessa diagnosi possono naturalmente differire per molteplici aspetti e situazioni. Gli scienziati hanno cercato di individuare e studiare le variabili più rilevanti in tal senso. Tra queste, un posto di assoluto rilievo è occupato da ciò che viene definito “illness-behavior” o comportamento di malattia.

Con comportamento di malattia si fa riferimento alle modalità con cui una singola persona esperisce, dà significato e vive determinati sintomi, comportandosi di conseguenza. Può comprendere in senso più ampio il modo in cui una persona si relaziona alle proprie sensazioni fisiche, sia a livello di attenzione selettiva che viene loro dedicata sia a livello di interpretazioni e significati che ne sono forniti. Include perciò anche le spiegazioni che una persona può elaborare relativamente a sintomi o processi fisiologici (cioè normali). Questo influenza naturalmente la modalità con cui la persona affronterà i sintomi e le informazioni che provengono dal proprio corpo  ed anche come si rapporta con i curanti cercando tempestivamente aiuto o aspettando un certo lasso di tempo prima di consultare un clinico.

Il comportamento di malattia non è spiegato soltanto da caratteristiche personali ma anche dalle caratteristiche dei sintomi sperimentati e da variabili relative al contesto di cura e al rapporto con i curanti stessi.

In accordo con la recente ricerca psicosomatica e i relativi criteri diagnostici (DCPR- Diagnostic Criteria for Psychosomatic Research), un prerequisito fondamentale per identificare il comportamento di malattia è che il paziente sia stato adeguatamente informato sulle sue condizioni mediche, avendo inoltre ricevuto l’opportunità per discutere, chiarire o negoziare rispetto a dubbi o necessità presentate. Infatti, in assenza di un’adeguata informazione e confronto medico-paziente, risulta difficile poter determinare se la reazione del paziente (che può spaziare   dalla flessione dell’umore all’ansia passando per la ricerca o in alcuni casi l’evitamento di figure mediche), sia da attribuire ad una inadeguata interazione clinico-paziente o ad aspetti propri del paziente stesso. Accertato ed ottemperato a questo aspetto, gli eventuali e persistenti aspetti disfunzionali riguardanti il comportamento di malattia del paziente possono essere affrontati con interventi più strutturati come la psicoterapia.


Cosci F, Fava GA. The clinical inadequacy of the DSM-5 classification of somatic symptom and related disorders: an alternative trans-diagnostic model. CNS Spectr. 2016 Aug;21(4):310-7. doi: 10.1017/S1092852915000760. Epub 2015 Dec 28. PMID: 26707822.

Fava GA, Cosci F, Sonino N. Current Psychosomatic Practice. Psychother Psychosom. 2017;86(1):13-30. doi: 10.1159/000448856. Epub 2016 Nov 25. PMID: 27884006.

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VALUTARE I SINTOMI DI ASTINENZA: L’INTERVISTA “DID-W1”

I sintomi di astinenza da psicofarmaci non si presentano in modo uniforme e stabile nel tempo ma sono eterogenei e diversi da persona a persona.

Proprio per questo una buona pratica  è quella della valutazione individuale (Cooper et al., 2023). Il primo passo per poter affrontare tali sintomi è accertarne presenza e tipologia, differenziandoli invece da un eventuale ricaduta di malattia.

La persona che prende contatto con il nostro centro perché ha sintomi astinenziali da riduzione/sospensione di psicofarmaci, in particolare antidepressivi, inizierà un processo diagnostico attraverso colloqui clinici e specifici strumenti di valutazione, che consentiranno di arrivare a una diagnosi finale per impostare il percorso terapeutico.

All’interno di tale processo, uno degli strumenti impiegati in caso di astinenza da riduzione o sospensione di SSRI o SNRI è la “Diagnostic Clinical Interview for Drug Withdrawal 1 SSRI and SNRI”, indicata con l’acronimo “DID-W1” (Cosci et al., 2018). Si tratta di un’intervista clinica, divisa in moduli, che permette di distinguere tra le diverse sindromi di astinenza da riduzioen/sospensione di SSRI/SNRI.

Tale valutazione sintomatologica è basata sul lavoro di Chouinard e Chouinard (2015) e di Cosci e Chouinard (2020), che ha permesso di delineare una nuova classificazione delle sindromi di astinenza da riduzione o sospensione di SSRI/SNRI suddivisa in nuovi sintomi di astinenza (nuovi sintomi rispetto all’episodio di malattia iniziale), sintomi da rebound (ritorno dei sintomi iniziali di malattia con maggiore intensità) e disturbo persistente da post-astinenza (protrarsi di nuovi sintomi di astinenza e di sintomi da rimbalzo).

La necessità di una valutazione di questo tipo risiede sia nella corretta individuazione dei sintomi astinenziali, sia nell’importanza di distinguere tra sintomi di astinenza e ricaduta di malattia. Inoltre, l’intervista consente di accertare la presenza di nuovi sintomi psicologici risultanti da precedenti trattamenti farmacologici (un aspetto noto come comorbidità iatrogena).

La DID-W1 è la prima intervista diagnostica che permette di identificare e differenziare tra loro i sintomi di astinenza da riduzione o sospensione di SSRI o SNRI, rivestendo così un ruolo di primo piano sia dal punto di vista clinico e terapeutico.

Cooper RE, Ashman M, Lomani J, Moncrieff J, Guy A, et al. (2023) “Stabilise-reduce, stabilise-reduce”: A survey of the common practices of deprescribing services and recommendations for future services. PLOS ONE 18(3): e0282988. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0282988

Cosci F, Chouinard G, Chouinard VA, Fava GA. (2018). The Diagnostic clinical Interview for Drug Withdrawal 1 (DID-W1) – New Symptoms of Selective Serotonin Reuptake Inhibitors (SSRI) or Serotonin Norepinephrine Reuptake Inhibitors (SNRI): inter-rater reliability. Rivista di Psichiatria. 53(2):95-99

Chouinard G, Chouinard VA. New Classification of Selective Serotonin Reuptake Inhibitor Withdrawal. Psychother Psychosom 2015; 84(2):63-71. DOI: 10.1159/000371865

Cosci F, Chouinard G. Acute and Persistent Withdrawal Syndromes Following Discontinuation of Psychotropic Medications. Psychother Psychosom. 2020;89(5):283-306. doi: 10.1159/000506868.

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Psicoterapia cognitivo-comportamentale: una breve introduzione

Chi inizia un percorso di psicoterapia, spesso si trova di fronte ad una molteplicità di approcci e di metodi di lavoro diversi tra loro. Oltre a ciò, ogni persona ha idee, più o meno implicite e più o meno articolate, su come difficoltà e temi personali dovrebbero essere affrontati- anche sulla base di eventuali percorsi psicologici già sperimentati in passato. Tutto ciò rende i primi incontri di psicoterapia particolarmente delicati: un paziente ad esempio potrebbe non comprendere il metodo del terapeuta o potrebbe trovarsi di fronte ad un approccio profondamente diverso da quello atteso. Nella prima fase di un percorso è perciò importante che il paziente possa chiedere le informazioni necessarie a comprendere l’approccio del terapeuta, condividendo eventuali dubbi e aspettative. Proprio per questo la terapia cognitivo-comportamentale dedica del tempo a questo primo passo, importantissimo sia per creare una cornice condivisa sia per stabilire una vera e propria alleanza terapeutica. Una delle caratteristiche precipue dell’approccio cognitivo-comportamentale è quella di basarsi su un metodo collaborativo, cioè fare squadra per affrontare il problema. Oltre a ciò, viene data importanza ad interventi di psicoeducazione, necessari per acquisire consapevolezza riguardo la natura dei sintomi riportati. L’obbiettivo è far acquisire alla persona strumenti specifici per affrontare gradualmente le difficoltà. Per questo motivo, l’analisi della situazione non avviene in astratto ma a partire da situazioni concrete, che viene chiesto di monitorare su un apposito diario tra un incontro e l’altro.  In questo modo il tempo trascorso tra le sedute non è un momento di vuoto o di arresto ma un’occasione per proseguire nel lavoro terapeutico mettendo in pratica quanto appreso. Alla persona si richiede una partecipazione attiva nell’apprendimento della gestione dei sintomi, sempre attraverso una modalità calmierata, graduale e concordata in anticipo con il terapeuta. Il focus dell’approccio è sull’esperienza stessa: pensieri ed emozioni sperimentati in diretta offrono possibilità di comprensione ed intervento molto più ampi rispetto a considerazioni ampie e generali effettuate a posteriori.